La nostra Horsa Resources del mese è Luca Dondi, Project Manager. Modenese che ha poi scelto Bologna come città in cui vivere, Luca è stato consulente CO e PS per poi divenire PM da un anno a questa parte. In quest’intervista scopriremo insieme il suo percorso, dall’Academy al Project Management.
Conosciamoci!
Ciao, Luca! Dicci qualcosa di te.
Nasco a Modena nel 1990. Dopo essermi laureato in Economia, ho cominciato il mio percorso in Horsa grazie a un’Academy organizzata dall’azienda. Sono partito come Consulente, seguendo tutti gli step di crescita “tipici” di questo ruolo; Junior Consultant, Consultant, Senior Consultant e da un anno abbondante sono diventato Project Manager. Inizialmente, per un paio di mesi, sono stato un consulente FI, approdando poi ai moduli CO e PS (Project System, ndr). Questi sono stati i due fili conduttori della mia carriera finora.
Dove vivi attualmente? Ti sei spostato nel corso degli anni? Se lo hai fatto, è stato per esigenze lavorative?
I primi anni di lavoro ero di stanza a Modena; nel 2016 mi sono invece trasferito a Bologna. Le esigenze lavorative riuscivo a gestirle comunque da Modena ma, una volta entrato in Horsa, il centro della mia vita si è spostato a Bologna. Amo questa città e non è semplice dirlo, da modenese!
Cosa ti piace fare nel tempo libero?
Sono un grande appassionato di sport; seguo soprattutto il basket, ma non solo. Ho sempre praticato sport, anche se con gli anni ho dovuto abbandonare la pallavolo. L’avventura più recente in cui mi sono lanciato è lo squash. Ho anche una grande passione per la musica; qui a Bologna c’è sempre un concerto da vedere, ci sono sempre mostre ed eventi a cui prendere parte… Insomma, non ci si annoia mai.
Anche tu, come Valeria, hai avuto una crescita professionale molto rapida, considerando che nel giro di pochi anni sei diventato Project Manager. C’è stato un momento in cui hai avuto il timore di non riuscire più a crescere?
Le opportunità ci sono sempre state e sono sempre state molto variegate, nonché c’è stata la possibilità di andare anche molto all’estero o di intraprendere il percorso manageriale. Ovviamente il periodo più difficile è stato quello del lockdown. Venendo a mancare una sorta di “routine”, per quanto si possa parlare di routine in ambito consulenziale, si è trattato indubbiamente di un momento che ha messo alla prova un po’ tutti.
Hai avuto quindi tante opzioni per poter crescere.
In alcuni momenti sì, ma scegliere non è stato semplice: sono uno che tendenzialmente vorrebbe provare tutto, ma talvolta bisogna intraprendere delle strade precise.
Ci racconti di quella volta che…
Prima hai menzionato il lockdown come un momento che ha avuto un forte impatto in senso sociale. Come lo hai vissuto?
Nel periodo in cui sono iniziate le chiusure (Marzo 2020) mi trovavo in USA per la partenza di un progetto. Sono partito per la trasferta nel momento in cui si iniziava a parlare del caso di Codogno e, quando sono tornato, mi ha fatto particolare impressione il percorso in taxi dall’aeroporto a casa, durante il quale non abbiamo incrociato neppure una macchina. Avendo la famiglia a Modena e vivendo a Bologna non è stato semplice affrontare il lockdown, ma si è trattato anche di un momento per fare un bilancio generale, professionale e non solo, considerando tutto il tempo che c’era a disposizione.
Per cui, al rientro dalla trasferta, hai trovato un’Italia cambiata, un’Italia chiusa in casa. Immagino che la visione di una Bologna deserta debba risultante parecchio scioccante.
Sì, è stato davvero un duro colpo rientrare e trovare l’Italia – e Bologna – in quelle condizioni.
Se dovessi chiederti quale sia per te l’eredità di questo periodo, cosa mi risponderesti?
Durante il lockdown, trovandomi in casa da solo, l’unica finestra attiva della giornata era sostanzialmente quella lavorativa. Ho però deciso di allenarmi tutti i giorni e quella è una cosa che mi sono poi portato dietro nel periodo di ripresa; ora non riesco ad andare in palestra tutti giorni ma mi alleno comunque più frequentemente di prima. Un altro aspetto che ho mutuato da quel momento riguarda la dieta: prima, facendo tante trasferte, non riuscivo a curare più di tanto l’alimentazione, mentre l’attenzione che vi ho dedicato durante il lockdown permane tuttora.
L’eredità negativa che menzionerei, oltre alla pesantezza e gravità del periodo, è la creazione di una sorta di “distacco” dato dallo smart working: talvolta si crea davvero una distanza laddove prima si tendeva a vivere le situazioni in modo diametralmente opposto.
Cosa pensi di questo cambiamento rispetto al nostro mestiere? Ci sono degli altri “lasciti” che impattano a livello professionale?
Sicuramente lavorare in team è diventato più complesso: la creazione di un’armonia, di una sintonia di gruppo è ora più difficile. “Cementare”, per così dire, le relazioni professionali è diventato più arduo.
Un aspetto positivo è il tempo che ora si ha a disposizione al di fuori del lavoro: per esempio, prima, in alcuni periodi in cui il carico di lavoro era particolarmente intenso, sarebbe stato impossibile per me andare in palestra, mentre ora riesco ad andarci con costanza almeno una o due volte alla settimana.
Tu sei Project Manager da un anno: quali sono le sfide più importanti che ti sei trovato ad affrontare da quando ricopri questo ruolo?
Il cambio di mentalità è probabilmente l’aspetto più sfidante: per chi parte da un percorso da consulente funzionale non è semplice pensare alle soluzioni in modo più trasversale e agli aspetti di gestione, è come praticare due sport diversi! Lasciare la “comfort zone” del proprio modulo è difficile e il rischio è talvolta quello di farsi coinvolgere troppo profondamente nelle soluzioni tecniche relative al modulo che si conosce. La gestione, sia da un punto di vista più manageriale che sotto gli aspetti più umani, richiede una certa sensibilità, sia nei confronti del proprio team che nei confronti del cliente, soprattutto quando si muovono i primi passi in questo ruolo.
Indubbiamente una delle cose più difficili per chi fa il tuo percorso è lasciarsi alle spalle le vesti di consulente funzionale. Quale ritieni che sia, quindi, la caratteristica più importante che dovrebbe avere chi aspira a essere un PM?
Posso dirti la caratteristica da non avere assolutamente: non bisogna essere permalosi e non bisogna legarsi le cose al dito… E te lo dice una persona dall’indole permalosa!
La caratteristica fondamentale che bisognerebbe possedere è l’organizzazione, ma è necessario anche avere un buon ventaglio di soft skills; la capacità di alleggerire le situazioni ove necessario può davvero fare la differenza.
Dicci di più
Ci sono dei modelli, anche al di fuori della sfera lavorativa, a cui ti ispiri rispetto al tuo ruolo di PM?
Sì, vorrei avere la capacità di comunicazione e di fare gruppo di Julio Velasco, storico allenatore di pallavolo e grandissimo comunicatore: avere il suo carisma sarebbe un vero sogno. Il mio riferimento, avendo anche esperienza nel campo dello sport, è senza dubbio lui. Da giocatore conosci il tuo ruolo, ma da allenatore devi imparare a gestirli tutti.
Rispetto ai progetti ai quali hai preso parte in questi anni, qual è secondo te l’aspetto organizzativo più critico da gestire per i clienti?
Il controllo di gestione non è così diffuso come si potrebbe pensare; da un punto di vista progettuale, questo può rappresentare un problema perché è necessario talvolta anche spiegare al cliente dei concetti che si potrebbero dare per scontati e che possono apparire quasi astratti in prima battuta. L’altra faccia della medaglia è che in alcuni casi la mancanza di un modello di controllo di gestione può essere uno dei motivi per cui si decide di implementare un nuovo software gestionale.
Si tratta di un aspetto sicuramente sfidante. Hai avuto momenti di particolare difficoltà nel gestire casi di questo tipo?
Sì, perché chi si occupa di controllo di gestione è spesso visto come la figura che blocca i processi logistici, e chi si occupa di questi ultimi può essere interessato fino a un certo punto alle tematiche relative al controllo di gestione. Ovviamente però il fatto che emergano dei problemi è anche sintomo della sua importanza: il blocco logistico causa un disagio che è essenzialmente temporaneo, ma il controllo di gestione previene criticità a medio e lungo termine.
Qual è il consiglio più importante che ti sentiresti di dare a una risorsa che si approccia oggi al tuo percorso professionale?
La cosa fondamentale è acquisire un metodo di lavoro preciso e puntuale, soprattutto all’inizio. Bisogna essere rigorosi nel segnarsi le attività del giorno, ciò che si impara dalle figure più senior e documentare il più possibile in modo metodico. Quello che ho capito crescendo è che puoi non sapere tante cose, ma avere un metodo consolidato per apprenderle rappresenta una marcia in più. Aggiungerei inoltre di essere più curiosi possibile e di approfondire almeno un po’ anche ciò che va oltre le proprie competenze.
Le parole delle Horsa Resources
Se dovessi associare 3 parole al mestiere del consulente, quali sarebbero?
“Gestione”, “organizzazione” e, in questo momento, “allenatore” sono le prime parole che associo alla mia figura. L’allenatore è colui che tira fuori il meglio da ogni membro del suo team, che non si limita a ottenere la somma delle competenze dei singoli ma qualcosa di più grande, di più olistico.
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Ringraziamo tantissimo Luca per aver partecipato a questa seconda edizione della rubrica “Horsa Resources” e vi diamo appuntamento al prossimo mese.