Il rumore delle dimissioni silenziose: note sul Quiet Quitting

Sul Quiet Quitting, parola lanciata la scorsa estate su TikTok da un ingegnere poco più che ventenne di New York, un certo Zaid Khan, si sta discutendo molto e da più parti.

Si dice che è il vero sintomo del post Covid, il segnale del fatto che le persone hanno meno voglia di impegnarsi nel lavoro, che si disinteressano progressivamente delle attività che svolgono, che rappresenti una sorta di dimissione silenziosa. Questa definizione, “dimissioni silenziose” mi colpisce tutte le volte che la leggo, mi rimanda l’idea di qualcosa che si fa in segretezza, di nascosto. E allora mi faccio la domanda: le persone se ne vanno in silenzio per non fare rumore oppure perché nessuno le ha viste prima?

Disinteressarsi, andarsene in silenzio, più che un fenomeno da studiare mi sembra una forma di abbandono che non so dire quanto veramente abbia a che fare con il riprendersi in mano la propria vita, lasciare un lavoro per fare cose che si ritengono più in linea con le proprie caratteristiche o, piuttosto, lasciare un posto silenziosamente perché non è stato in grado di “vederci”.

Il sentirsi visti è un aspetto psicologico molto importante che ha a che fare con l’essere riconosciuti, venire considerati e sentirsi presenti nei pensieri di qualcun altro: del capo, dell’azienda, di un progetto. Quando questo aspetto viene a mancare, credo si possa dire che la persona viva uno stato di abbandono e allora, a sua volta, abbandona. Lo fa in punta di piedi, disinvestendo lentamente come ci si spoglia dei vestiti pesanti, pigramente, nei mesi in cui arriva piano piano la bella stagione. Si inizia con l’abbandonare i guanti e il cappello di lana, poi è la volta del cappotto pesante e del maglione che si dimentica in macchina perché fuori fa caldo e non serve più.

Eppure, dietro al fare il minimo indispensabile, almeno così viene descritto questo fenomeno da diverse fonti, sembra esserci un sentimento che ha a che fare con la scontentezza, l’insoddisfazione, la demotivazione piuttosto che con una scelta di vita. “Sono scontento e silenziosamente me ne vado” sembrano dirci i quiet quitter, come se non ci fosse la possibilità di dire o di trovare lo spazio di un ascolto altro, di un contenitore capace di contenere perplessità, dubbi, angosce persino e frustrazioni legate a un tempo-lavoro che sembra mangiare tutto, che non lascia scampo, che sottopaga e che in alcuni casi annienta.

Non sono in grado di fare analisi sociologiche di ampia portata; più che i grandi movimenti – devo averlo già detto da qualche parte – sono attratta dai dettagli, dalle storie di vita che vedo nei corridoi del lavoro che abito e dell’azienda che rappresento.

Non sono capace di pensare che il quiet quitting sia la soluzione, non riesco a sostenere che “disinvestire” sia la cura per la demotivazione o un nuovo stile di vita per le generazioni future. Non auguro ai miei prossimi colleghi, ai più giovani, di trovarsi tra le fila di chi si dimette silenziosamente. Non so come stanno quelle persone che vivono dentro a quel silenzio, non viste da nessuno, ma faccio fatica a pensare che sia una scelta di vita. Io penso che investire così come disinvestire in un’attività o in un lavoro che si è svolto magari per tanto tempo sia qualcosa che ha bisogno di energia, di un progetto, di vitalità e della forza di esserci, piuttosto che di un abbandono senza saluto. Infatti, quando un collega lascia la mia organizzazione io o le mie colleghe facciamo un’intervista di uscita che serve a capire cosa è andato storto, ad avere altre informazioni sull’andamento di un certo segmento dell’organizzazione ma serve anche a dire a quella persona: ti vedo, la tua uscita dalla nostra organizzazione fa rumore, eccome.

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