Che alla fiera il candidato comprò: riflessioni sui recruiting day

La definizione “fiera del lavoro” mi ha sempre fatto sorridere. È un termine si usa che spesso in gergo aziendalese al posto del più noto “recruiting day”, ovvero quell’evento solitamente organizzato da una università o da un centro di formazione professionale che ha il compito, peraltro durissimo, di far incontrare domanda e offerta, aziende e candidati. In poche parole: io vado in fiera, faccio mostra della mia merce migliore e tu che sei appena uscitX da un corso di laurea di mio interesse o sei in procinto di farlo, magari stai scrivendo la tesi, scegli l’offerente migliore. E allora c’è da chiedersi, e lo si fa abitualmente, quali sono i criteri utilizzati più di frequente per compiere questa scelta: il sorriso più accogliente? Lo stand pieno di gadget? Magari con qualche cosa da stuzzicare e da bere offerta dall’azienda? Il recruiter o la recruiter più affabile, capace di catturare il candidato o la candidata, e di convincere della bontà dei prodotti in bella mostra?

E che desolazione, la sera, con le gambe stanche, la stazione dei treni lontana, tornare a casa e fare la conta. Dei pochi curricula lasciati sul tavolo o di quelli inviati tramite e-mail; il numero eccessivo di gadget da risistemare nello zaino, simboli di qualcuno che non ci ha scelto, che non si è presentato, di un contesto che ha mancato di confermarci. E si aspetta trepidamente la fiera successiva come a volersi guadagnare una condizione esperienziale più vivibile, più dignitosa, meno squalificante in risposta a un lavoro dispendioso e affaticante. Ma cosa è accaduto dentro a quell’incontro mancato? Cosa è mancato o cosa, invece, è stato fin troppo presente nell’esperienza, dall’altra parte del cannocchiale, che ne fanno candidatX e aziende? Credo che la risposta risieda in più parti, difficile qui dare sentenze assolute, del resto non sono portata a grandi interpretazioni, lo abbiamo detto, quanto piuttosto a notare piccoli dettagli.

Diciamo per cominciare che il contesto dell’incontro è forzato, insaturo, asettico e incongruo. Si tratta di un ambiente che non rappresenta nemmeno in parte quello aziendale, quello cioè che si desidera trasmettere con presentazioni power point spesso fuori focus, eccessivamente lunghe, eccessivamente colorate, eccessivamente uguali a sé stesse, eccessivamente tutto. Il famoso “nice to meet you” certamente avviene, ma dentro a territori desertici privi di quella funzione restitutiva e appagante tipica invece di un incontro svolto in un contesto più accogliente, familiare e fertile. Si finisce poi per avere sul bancone, lì in bella mostra, la medesima merce, resa allettante da qualche benefit innovativo, magari un programma di welfare aziendale rassicurante, ore di smart working, contratti di assunzione tutelanti; insomma, accessori a una relazione che però ancora non si è creata, che non ha avuto il tempo di farlo, che abbiamo tutti fretta di celebrare. Il candidatX ci guarda: “bello, eh, ma mi ha detto la stessa cosa l’azienda che ha lo stand accanto. Hai mica un cioccolatino da regalarmi?” E no, tu il cioccolatino non ce l’hai. Hai un paio di penne, al massimo un quadernino a quadretti, ma il cioccolatino no, non l’avevi considerato.

Che significa, allora, tutto questo? Che dovevi portare gadget migliori? Oppure che l’obiettivo reale non sia avere la proposta più ficcante e attraente ma semplicemente esserci, mettersi a disposizione in modalità di ascolto, partecipare con l’attitudine di chi vuole capire piuttosto che “vendere”, ascoltare quello che le persone cercano, le domande che fanno, la merce a cui sono più attenti, quella che non attrae più, quella che viene richiesta, quella che più di un’altra sembra fare la differenza o che persino, oramai, si reputa scontata.

Quello che penso occorra per stare dentro a questi contesti così mutevoli e cangianti, sia la propensione a domandare, anziché offrire, a capire che tipo di consumatore o consumatrice è il/la candidatX mettendosi nell’ottica di far parte di un osservatorio unico per certi versi, una postazione privilegiata per intuire in che direzione va un certo tipo di domanda. E allo stesso modo porsi interrogativi utili sui grandi assenti. Dove sono finiti tutti? Chi è rimasto a casa? E perché lo ha fatto? Cosa non trova più dentro a questo contesto che però, forse, recepisce da qualche altra parte? Chi manca all’appello?

Ognuno di noi diventa ciò che guarda, desidera e pensa, scrive Mancuso* e il punto di vista nel quale porsi in queste situazioni ha un peso, eccome.

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*La forza di essere migliori, Vito Mancuso, Garzanti, 2021

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