Il benessere del personale è un tema che sta acquistando sempre più peso sui tavoli delle direzioni aziendali. Sempre più CEO, Presidenti e Direttori Generali discutono con gli HR Manager quali strategie mettere in campo per migliorare il benessere del personale, come tradurle in iniziative e quali tecnologie e processi attenzionare per far funzionare al meglio il rinnovamento. Spicca, in questo senso, una sensibilità nei confronti dell’opportunità di strategie – e quindi iniziative – data-driven. Sensibilità che tuttavia non sempre è accompagnata da una concreta pratica, per innumerevoli e disparate ragioni.
Ne abbiamo parlato con Andrea Rademoli, Direttore Risorse Umane e Organizzazione di Florim Ceramiche*, che ha recentemente scritto per la rivista Personale e Lavoro un articolo che indaga l’utilità degli strumenti di Business Intelligence, e di una strategia data-driven, per la funzione HR.
Benessere del personale e strategie data-driven: l’intervista ad Andrea Rademoli
Dott. Rademoli, perché è importante considerare la gestione dei dati all’interno delle strategie per il benessere del personale, soprattutto nelle aziende del suo settore?
La complessità di gestione tipica di un’azienda industriale porta ad attenzionare in particolar modo la gestione del dato, perché i vari stabilimenti di cui sono composte le aziende così grandi hanno, ciascuno di loro, una propria ecologia sociale e lavorativa. È però importante per il business avere elementi di confronto tra le diverse situazioni. Questo ha ripercussioni sulla qualità del lavoro. Porre attenzione all’ufficio del personale, che per sua natura è basato sulla relazione, è importante. Quando si lavora meglio, si migliora anche la qualità della vita generale delle persone al lavoro.
Nella sua esperienza, quali sono le difficoltà attuali delle Direzioni HR in Italia?
La dualità della funzione HR: sempre in lotta tra indispensabilità e credibilità. L’indispensabilità viene assegnata alle Direzioni del Personale anche dove non c’è cultura del personale; a questo afferisce tutta la gestione delle situazioni complicate, come vertenze, licenziamenti, ma anche alla parte amministrativa. La credibilità è necessaria per fare un salto in avanti, ma questo salto avviene un po’ a macchia di leopardo. Ci sono aziende che consentono di mettere in campo tutte le attività e gli strumenti che permettono di migliorare la gestione del personale (che comprende anche l’ambiente aziendale). Un’altra difficoltà è che quando si lavora sul personale, i risultati si vedono sempre nel lungo periodo: a volte questa distanza temporale, che magari poi viene interrotta da avvicendamenti professionali, rende più lontano il merito del risultato. Nella mia esperienza, esistono questi due mondi che oscillano tra due estremi: una visione centrata sull’execution e una gestione basata sulla collaboration, sugli aspetti che siano focalizzati sull’evoluzione positiva del lavoro.
Ci sono best practice universali a cui le aziende possono ispirarsi per raggiungere più credibilità?
Gli strumenti non sono infiniti. Ci sono, ci devono essere ma devono essere adattati al contesto aziendale. La declinazione dello strumento va fatta rispetto alla cultura aziendale e rispetto al mandato della proprietà. La Direzione del Personale poi può anche lavorare di rimessa, gli schemi possono essere flessibili. Si possono innescare piccoli cambiamenti per innescare cortocircuiti positivi rispetto a prassi un po’ stagnanti, che possono lanciare una scintilla che può svilupparsi. Bisogna mettersi in gioco come facilitatori nella comprensione del mondo delle risorse umane.
Le Direzioni HR devono gestire una quantità importante di dati, dal punto di vista numerico e qualitativo. La corretta gestione di questi dati rappresenta le fondamenta di qualunque progetto HR. Come mai la gestione del dato è così importante e che tipo di dati le direzioni HR si trovano a dover trattare, per progetti diversi?
La Direzione del Personale, nella sua parte amministrativa, è una parte centrale ma soffocata dalle scadenze e dalla routine amministrativa e da tutte le incombenze laterali. La focalizzazione sulle attività fondamentali drena energia, perché anche con l’esternalizzazione, arriva un punto in cui il dato esternalizzato deve essere re-interiorizzato, metabolizzato, gestito. In un assetto ideale dovrebbe esserci un data analyst; nella maggior parte dei casi non c’è. I gestionali in uso alle risorse umane di solito fanno fatica a incrociare in maniera interattiva tutte le dimensioni del lavoro dipendente: l’anagrafica, la parte economica, contrattuale, organizzativa, degli orari…sono tante dimensioni che hanno combinazioni incrociate tra di loro molto ampie. Quindi il tema è che abbiamo le direzioni HR spesso fuori dal mondo della tecnologia, che si preoccupano di fare bene le buste paghe e poi giocano molto sulla relazione. A supporto, in chiave evolutiva e di sostengo, tutta la parte dello sviluppo della persona. Ecco, il dato può essere recuperato da tutti questi universi che rischiano di andare in parallelo tra di loro. L’HR dovrebbe diventare un team di ricercatori all’interno delle aziende, in grado cioè di intercettare situazioni e trend. Questo lo si fa a livello di relazione, ma non solo; lo si può fare anche attraverso un uso dei dati. Ciò aiuterebbe la Direzione del Personale a diventare un punto di riferimento non solo emotivo ma anche razionale, di ordine quantitativo, e contribuirebbe ad aiutare i vari capi a gestire le persone. Il dato è un elemento di sinergia rispetto alla creazione e allo sviluppo di relazioni in quanto tali: attività che può essere ulteriormente migliorata se si aiutano le persone a rendersi meglio conto delle situazioni in cui si trovano i lavoratori. A volte disporre di numeri puntuali, avere la possibilità di incrociarli, possono suggerire riflessioni. I cruscotti del personale sono strumenti, ma la messa a disposizione modulare (con unità di misura diverse) di tutta una serie di informazioni consente ai capi di capire meglio cosa sta succedendo sotto di loro, e consente alla direzione di vedere, focalizzare differenze che possono esistere tra uno stabilimento e l’altro. Se abbiamo turnover di un certo tipo e possiamo collegarli alle tipologie di assenze piuttosto che all’età media, al sesso, abbiamo delle fotografie a cui non si era pensato, che escono dal debito verso figure che sono in azienda da tanti anni e hanno una sensibilità su certe dinamiche aziendali.
Questo apre a uno spunto nuovo e interessante: si parla tanto delle strategie data-driven, ma per le Risorse Umane bisognerebbe trovare una sinergia tra i due aspetti?
È necessario un commitment aziendale, un lavoro di sinergia tra le varie funzioni; ci dev’essere un lavoro all’interno della funzione HR tra le varie componenti, perché le sensibilità sono diverse e anche le necessità (es. chi fa sviluppo e la parte amministrativa). Ma soprattutto questi aspetti rappresentano un doveroso completamento agli sforzi che mi sembra di percepire sempre più numerosi all’interno delle aziende di cercare una gestione data driven sia da un punto di vista produttivo che commerciale. Poi le strade sono infinite tante quante sono gli strumenti, ma dovrebbero essere ingentiliti dalla dimensione umana. Consentire ai capi di avere sottomano in maniera oggettiva anche una dimensione che normalmente è solo qualitativa. Una non deve sostituire l’altra.
Quale consiglio darebbe alle aziende che si approcciano a questo tipo di lavoro, che priorità dare?
Questi processi che hanno natura tecnologica richiedono tempi tecnici di realizzazione abbastanza estesi. Se si pensa a una Direzione HR data driven occorre fare un passo 0, che è la scannerizzazione dei dati all’interno dell’organizzazione: eliminare i dati ridondanti, procedere a una omogeneizzazione importante, darsi delle regole, ripensare il modo di lavorare. Questo come punto 0. Dopo ci sono percorsi che necessitano di una consulenza esterna, e se la consulenza è focalizzata sull’obiettivo è tutto più facile. Occorre considerare che la Direzione HR di solito non ha attitudine tecnologica: bisogna tenere il team sul pezzo per raggiungere una base di partenza solida. Quando si è raggiunto questo, il lavoro scorre.
Quanto è importante la sponsorizzazione della direzione aziendale in questi progetti?
Sicuramente molto. C’è un doppio livello, a mio avviso: se c’è un commitment, e tanto più questo indirizzo aziendale viene reclamizzato,
tanto più ne gode la parte successiva al progetto. Io come ufficio HR ho una serie di strumenti, li metto a disposizione dell’intera azienda: questa è la parte che ne giova. All’interno dell’HR invece il lavoro scorre comunque. Ma si può pensare a un secondo livello, in cui la sponsorizzazione del progetto può essere anche meno evidente, nel senso che lo strumento,
una volta completato, rappresenta un supporto all’interno dell’azienda. Ha meno enfasi, lo accoglie un po’ più di scetticismo. Ma se con il tempo anche gli scettici si ricredono, in qualche modo le acque si muovono in senso positivo. Dando per scontato che ci sia una condivisione aziendale sul far partire il progetto. Se c’è una sponsorizzazione intensa la fase 2 va molto più spedita, ma in certi contesti, dove la cultura aziendale è tale da autorizzare la partenza del progetto ma non da impegnarsi su aspetti di cui non si capisce fino in fondo il beneficio, comunque il farlo porta una maggiore debolezza dello svolgimento del lavoro quotidiano, sia da parte della Direzione del Personale, sia da parte del collega-fruitore di certe informazioni. Quindi secondo me la Direzione del Personale se la può giocare anche in maniera un po’ più defilata, con ottimi risultati. A volte ci si nasconde dietro il commitment, ma in realtà se si mettono in moto questi movimenti, magari ci vuole più tempo ma le curiosità sorgono, le sensibilità si muovono e certe dinamiche si uniscono.
Sarebbe sempre auspicabile che esistesse una sponsorizzazione 101%, ma il lavoro può essere portato a termine egregiamente anche senza.
*Florim Ceramiche è un’azienda manifatturiera italiana che conta circa 1500 dipendenti e che dal 2020 è anche Società Benefit (forma giuridica che focalizza l’attenzione non solo sul profitto ma anche sugli aspetti sociali e ambientali).