Signore e signori, buonasera!
Una frase sicuramente conosciuta e che siamo abituati ad ascoltare: nessun presentatore prenderebbe in considerazione l’idea di rivolgersi a un pubblico dicendo solo: “Signori, buonasera”.
Come risulterebbe un simile approccio? Sgarbato? Maleducato? Offensivo? Maschilista? Sessista?
È proprio dalle reazioni a una frase considerata come inappropriata che hanno inizio discussioni, dibattiti, scontri anche molto accesi che si possono trovare facilmente in rete. E le valutazioni, nel parlare e a maggior ragione nello scrivere, sono complesse, in un intreccio tra regole grammaticali, abitudini, gusti personali, ricchezze e limiti linguistici.
Un esempio? Se nello scrivere “Signori, buonasera” risulta subito evidente la disattenzione verso il pubblico femminile, meno appariscente può essere la frase che ho scritto qualche riga più in su: “Nessun presentatore prenderebbe in considerazione l’idea…”
E le “presentatrici”?
In questo caso non le avevo dimenticate, ho scelto deliberatamente di usare il maschile sovraesteso proprio per far notare quanto l’abitudine abbia un ruolo importante nel nostro modo di comunicare.
Colleghe e colleghi
Ecco un altro esempio di maschile sovraesteso.
Per raccontare l’arrivo nel posto di lavoro sarebbe grammaticalmente corretto e, almeno fino a qualche anno fa, comunemente accettato scrivere: “Appena entrato in ufficio ho salutato tutti i colleghi”.
Questo sia nel caso ci fossero nella stanza solo uomini, oppure sia colleghe che colleghi, ma anche nel caso di tutte donne e un solo uomo.
Giusto? Sbagliato? Sicuramente fonte di discussione.
Diverse le soluzioni proposte o almeno tentate: dall’utilizzo di asterischi, allo (o alla?) schwa, della vocale “u” prendendo spunto dal Latino, dove però il genere neutro è riferito a cose inanimate.
Dando seguito ai vari suggerimenti avremmo frasi come: “ho salutato tutt* i/le collegh*”, “ho salutato tuttə i/le colleghə”, “ho salutato tuttu i/le collegu”.
Volendo usare un alfabeto più tradizionale, potremmo anche avere “ho salutato tutti/e i/le colleghi/e”.
Facile immaginare le difficoltà di comprensione con nuove lettere, soprattutto per chi inizia a leggere, oppure sta studiando da poco la lingua italiana, o a problemi di dislessia.
Nel caso invece in cui venga specificato sia il genere maschile che femminile, può risultare facilmente noioso l’utilizzo di questa forma in un testo lungo.
Basti solo pensare a una descrizione come questa: “Appena entrato in ufficio ho salutato tutti/e i/le colleghi/e, ho proposto a tutti/e i/le presenti di iniziare la giornata lavorativa con un caffè, alcuni/e di loro hanno accettato, mentre altri/e hanno declinato l’invito. Subito dopo la pausa ci siamo trovati tutti/e insieme in sala riunioni per stabilire le priorità della giornata, poi ognuno/a è tornato/a alla propria scrivania”.
Già dopo poche righe passa la voglia di continuare a leggere.
Insomma, per cercare di essere inclusivi, si rischia di confondere chi legge o di annoiare i lettori (e le lettrici!).
Anche nella lingua parlata la situazione è complessa.
Gli asterischi non si possono pronunciare, la schwa (o lo schwa? Occorre fare riferimento ad una lettera o ad un carattere? Anche su questo ci sono pareri discordanti) non è facile da pronunciare, con il rischio di non essere compresi.
Terminare le parole con la “u” può confondere altrettanto l’interlocutore/interlocutrice.
Come ho già accennato, i pareri di studiosi ed esperti sono diversi e vanno da una difesa ad oltranza delle regole grammaticali, ad un’esigenza assoluta di inclusività.
La situazione si complica ulteriormente se la persona a cui ci rivolgiamo si dichiara un “non binario”, ma in questo caso si sommano più componenti: psicologiche, antropologiche, sociologiche.
Su questo argomento mi limito solo a considerare come la lingua italiana preveda una suddivisione nei generi femminile e maschile, e non poterla mai utilizzare rende complessa la comunicazione sia scritta che orale.
In generale, nel cercare il modo di essere il più possibile inclusivi, è possibile, pur se non sempre, ricorrere a frasi generiche, anche se questo può portare a modificare il significato delle frasi o comunque produrre una minore precisione su quanto espresso.
Tornando al solito esempio “colleghi/colleghe”, la frase si potrebbe scrivere più genericamente: “Appena entrato ho salutato tutte le persone presenti in ufficio”.
Frase inclusiva, ma che non trasmette lo stesso significato: si può intuire che i presenti siano tutti colleghi o colleghe, o comunque persone che svolgono lo stesso lavoro, ma il concetto non viene più esplicitato.
Maestra e maestro
I riferimenti al maschile che sottintendono il femminile riguardano anche i titoli professionali, e questo argomento è fonte di discussioni, proposte e rifiuti.
L’opposizione tipica, che ho sentito esclamare anche da donne, è: “certe parole non si possono proprio sentire”, in riferimento a termini come: “Avvocata”, “Sindaca”, “Ingegnera” ecc.
Determinante, in questi casi, è l’abitudine all’uso delle parole, al suono a cui non siamo abituati, tanto da trovarle “brutte” e quindi “sbagliate”, anche se il termine è presente nei vocabolari (come lo sono i titoli elencati prima, riconosciuti inoltre validi dall’Accademia della Crusca).
Invece, ad esempio verso la parola: “Maestra” non ci sono discussioni, perché siamo abituati a sentirla fin da piccoli (e piccole).
Negli ultimi anni è cresciuto il numero di “Maestri” intesi come insegnanti delle scuole primarie, ma, anche qui per abitudini consolidate negli anni, mentre alla parola “Maestra” si fa immediatamente riferimento ad un’insegnante che esercita la propria professione con bambini (e bambine), con il termine “Maestro” viene invece in mente un direttore d’orchestra, o comunque un musicista, oppure qualcuno particolarmente importante ed esperto nella propria materia, tanto da risultare un riferimento nella letteratura, nella pittura, nella scienza, in filosofia, o per qualsiasi altra disciplina artistica o scientifica.
Ci sono quindi una serie di abitudini, di significati consolidati e che spesso vengono accettati per consuetudine, più che per un’intenzione di prevaricazione o di disuguaglianza, anche se questo, pur involontariamente, rischia di determinare una mancanza di rispetto.
Per sorriderci sopra seppure con un fondo di amarezza, si può rivedere su Youtube un monologo dell’attrice e regista Paola Cortellesi, presentato alla premiazione del David di Donatello del 2018, a riguardo di come diverse parole al femminile cambiano significato, rispetto all’equivalente maschile, finendo però tutte con la stessa accezione dispregiativa.
Parole come “Disponibile, “Passeggiatore”, “Squillo”, “Zoccolo”, “Allegro”.
Lo spunto per il monologo è del celebre semiologo (giornalista, scrittore ed enigmista) Stefano Bartezzaghi, e l’intento è il porre l’attenzione su come il valore, in questo caso offensivo, che viene dato alle parole rivolte al femminile, possa tramutarsi in pensieri denigratori fino a generare azioni violente contro le donne.
Questo per sottolineare quanto la comunicazione, l’utilizzo e il significato dei vocaboli sia fondamentale all’interno della nostra società.
L’utilizzo del maschile sovraesteso, dei termini al femminile e il significato a loro attribuito, hanno numerose sfaccettature di cui tenere conto, e non è un caso che si ritrovino al centro di uno scontro tra l’esigenza di una maggiore inclusività e la resistenza al cambiamento tipica in qualsiasi contesto, forse ancora più forte del solito quando si tratta di modificare il proprio modo di parlare o di scrivere, di ascoltare o di leggere.
Qualche considerazione in più sui possibili cambiamenti sarà il tema di un prossimo articolo, a partire dalle riflessioni sul possibile utilizzo di un “femminile sovraesteso”.